Che cosa hanno in comune un filosofo un po’ oscuro come Walter Benjamin e una interprete di sigle per cartoni animati come Cristina D’Avena? In apparenza, poco o nulla.
In realtà, invece, i due sono accomunati dall’interesse per il mondo dell’infanzia, sia pure da versanti opposti. Il libro Walter Benjamin vs Cristina D’Avena, di fresca uscita con le edizioni Arduino Sacco, tenta proprio di descriverne le diverse posizioni.
Per saperne di più, abbiamo incontrato il suo autore, Emiliano Ventura.
«Se vogliamo, tutto il libro è il racconto di come sia venuto meno un patto, il patto segreto tra artista e bambino, finito quando è comparso “l’esperto di letteratura per l’infanzia”», ci ha detto; «questo è il punto intorno a cui orbita questo testo, e lo fa lasciando la parola a illustratori, scrittori e cantanti».
Cosa pensa Benjamin del mondo della letteratura per l’infanzia?
Ha scritto che «È solo da un pregiudizio squisitamente moderno che è nato il nuovo romanzo per la gioventù, un prodotto senza radici pieno di torbidi umori. Esso è nato dalla convinzione che i bambini, creature singolari e incommensurabili, abbiano bisogno di essere intrattenute attraverso un’invettiva tutta particolare». L’idea del bambino e dell’infanzia di oggi, quella che si è radicata in Europa fin dall’Illuminismo, è poco rispettosa dell’alterità dell’individuo-bambino. Il bambino e l’adulto si trovano in un rapporto di figura e adempimento, c’è una promessa che deve compiersi. E questo fenomeno va aiutato e non ostacolato.
«Scervellarsi pedantescamente per realizzare prodotti – siano essi immagini, giocattoli o libri – adatti ai bambini è folle. Fin dall’Illuminismo questa è una delle fissazioni più ammuffite dei pedagoghi», diceva sempre Benjamin.
I bambini non vanno trattati diversamente da chiunque altro, dunque…
Troppo spesso l’adulto dimentica come «il bambino sia l’individuo meno infantile che esista». Di tutta la letteratura per l’infanzia, Benjamin salva le illustrazioni e gli illustratori: figure e professionalità sfuggite ai controlli dei pedagoghi e degli educatori, che hanno così potuto mantenere inalterato il potere evocativo e fascinoso dell’immagine grazie a una libertà di azione non riconosciuta alla narrazione. Per citarlo esattamente: «Vi è una cosa che salva anche i testi più antiquati, ancora schiavi del pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. L’illustrazione, infatti, sfuggiva al controllo adultocentrico e rapidamente artisti e bambini si sono capiti, alle spalle dei pedagogisti».
Nel libro, però, dici che anche questo aspetto è venuto meno…
No, infatti non è durato a lungo; Benjamin ne ravvisa un declino già tra la fine del XVIII secolo e il XIX, nel periodo del Biedermeier (lo stile artistico e decorativo del movimento culturale diffuso in Austria tra il 1810 e il 1850 circa, in contrapposizione con lo stile Impero: attestava una decisa voglia di normalità, concentrandosi su un individuo conservatore, apolitico e interessato solo alla propria vita familiare), quando la sola novità nelle illustrazioni consistette nel colore e nel passaggio a una tecnica industriale. «La pura fantasia abbandona qualsiasi responsabilità […] contemporaneamente al grande sviluppo tecnologico e al livellamento culturale ad esso in parte connesso».
Di contro alle illustrazioni a colori della nuova tecnica, il filosofo contrappone le xilografie precedenti in bianco e nero, che ancora attestano una realizzazione artigianale: «L’illustrazione colorata sprofonda la fantasia del bambino sognante in sè stesso. La xilografia in bianco e nero, la sobria illustrazione prosaica, lo spinge fuori da sé […] Il bambino effettua questa condensazione così accade che egli non solo descriva le immagini a parole, ma lo faccia anche fisicamente, ossia vi ‘scriva’ sopra in senso materiale. Le scarabocchia imparando contemporaneamente con la lingua anche la scrittura: la geroglifica». L’immagine colorata suscita infatti una sensazione da noli me tangere; quella in bianco e nero stimola racconto e scrittura.
E Cristina D’Avena? Come entra in un discorso di questo genere?
Vediamo di capire il suo versante dell’infanzia. Per comodità, dividiamo il cartone animato in due parti; l’elemento testuale, ovvero le immagini animate che narrano una storia seriale, e l’elemento paratestuale, costituito dalla sigla iniziale, con musica, parole e immagini del cartone stesso. In un libro, la scrittura è l’elemento testuale, le immagini sono quella paratestuale. L’impatto mediatico e immaginifico delle sigle non è minore di quello del programma stesso: negli anni Settanta/Ottanta, la pubblicazione dei pezzi in 45 giri registrava vendite di milioni di esemplari. Troppo spesso si trascura il fatto dell’enorme impatto della tv sul nostro immaginario, mi limito solo a segnalare i saggi di David Foster Wallace su questo argomento, su come la tv abbia influenzato l’ultima generazione di scrittori americani.
Su questa base, possiamo costruire un parallelo tra l’illustratore (il figurinaio in Italia) dei libri per l’infanzia e l’autore-interprete delle sigle dei programmi tv, pure per l’infanzia.
Come approfondisci questo parallelismo?
C’è stato un periodo in cui l’elemento paratestuale della sigla dei cartoni è stato ‘libero’ di esprimersi, ed ha usufruito di alta professionalità e diversità. Agli inizi degli anni Settanta, il mondo delle sigle televisive e dei loro autori si presentava vario e ricco di professionalità importanti e affermate: Roberto Vecchioni, Nico Fidenco, Orietta Berti, Lino Toffolo…
A questa fase, così ricca di esperienze diverse e di diverse professionalità, succede e segue una fase più conservatrice, a tratti simile a un monopolio. Una koinè musicale e vocale si impone scansando altre professionalità: è il momento in cui Cristina D’Avena – una “specialista” – ottiene il suo grande successo. Il vecchio vizio della pedagogia adultocentrica si ripresenta, mutadis mutandis, anche in questo settore.
Il musicista ‘non specializzato’ e scevro da ‘ideologie’ o intenti pedagogici, l’interprete di canzoni, impegnate o lèggere che siano, che presta la sua voce alla sigla tv, cede il passo al cantante pedagogo professionista. Esattamente come successo nell’illustrazione dei libri. Ecco che torna il corollario di Walter Benjamin riguardo il mondo delle illustrazioni per l’infanzia: «Fino a quando non si è affacciato l’esperto, il guasto e la banalità non si era ancora manifestato, il patto segreto tra artista e bambino era ancora in atto».
E quindi?
Nella tv commerciale, tra gli anni Settanta e Ottanta, si comincia a scervellarsi pedantescamente per creare un prodotto ‘adatto’ al bambino. Nascono pupazzoni o pupazzoidi che dovrebbero divertire e intrattenere il bambino, usando un linguaggio mai volgare, ma sicuramente sciatto, molto colloquiale e banalizzato. A un panorama ricco di esperienze e di professionalità diverse, si sostituisce una visione monotematica; a una pluralità di voci ne subentra una sola, l’immaginario del bambino vede di nuovo richiudersi la vasta e multiforme potenzialità della fantasia. Per dirla con Michael Ende, Fantàsia è in pericolo. Il patto segreto tra artista e bambino si è perso di nuovo…
Emiliano Ventura, Walter Benjamin vs Cristina D’Avena, Arduino Sacco 2017, € 12,90
(a cura di Domenico Marinelli)