sbam_squazNegli anni ‘90 è stato illustratore e fumettista della scena underground italiana; oggi Pasquale Todisco, in arte Squaz, rappresenta al meglio quel fumetto d’autore, al di fuori dei canoni dettati da quel mercato che, in Italia rispetto ad altri paesi, fa fatica ad ottenere il meritato riconoscimento. L’intervista che segue è uno stralcio di quella che potete trovare sul nr. 11 di Sbam! Comics, la nostra rivista digitale scaricabile gratuitamente da qui.

Come è iniziata la tua carriera?
Qualche anno fa mi trasferii da Taranto a Milano per seguire un corso di illustrazione all’Istituto Europeo di Design. Anche se la mia passione fin da piccolo erano i fumetti, decisi di seguire un corso di illustrazione, perché era chiaro che vivere solo di fumetti sarebbe stato difficile, se non impossibile. Così ho frequentato tre dei quattro anni previsti del corso e poi ho iniziato a lavorare come illustratore, accantonando inizialmente il fumetto.

Quali sono stati i tuoi primi lavori?
Ho lavorato per alcune riviste, ad esempio per Diario dell’Unità, dove illustravo le recensioni letterarie. Poi sono venuto a contatto con le fanzine di fumetto underground (in particolare Interzona di Torino) degli anni Novanta, pubblicazioni che fondamentalmente coprivano quel buco esistente in edicola dopo la scomparsa di riviste come Frigidaire. In quegli anni in edicola c’erano solo fumetti Bonelli, e Topolino. Oggi c’è molta più scelta, mentre in passato tutto questo non c’era e iniziare era davvero difficile se non si rientrava in certi standard canonici “bonelliani”.

Cosa voleva dire essere “underground” negli anni Novanta?
Una fanzine come Interzona non era underground solo perché raccoglieva quelli che non rientravano negli standard del fumetto italiano, ma lo era anche nella distribuzione: veniva diffuso nei centri sociali, come l’Hiroshima Mon Amour di Torino. Per me fu anche l’occasione di entrare a contatto con la realtà dei centri sociali, che in quel periodo avevano una proposta culturale intensa.

sbam_squaz-pandemonioQuale è stato il tuo primo “importante” lavoro a fumetti?
Dopo varie collaborazioni come illustratore, tra cui anche quella con Rolling Stones, il primo grosso lavoro e riconoscimento è stato il libro a fumetti Pandemonio, con Gianluca Morozzi. È uscito nel 2007 e ha avuto un buon riscontro, soprattutto di critica; al Napoli Comicon di quell’anno venne premiato come miglior libro a fumetti. È stato un buon inizio, anche se è avvenuto tardi; oggi vedo ragazzi che pubblicano il loro primo libro di 200 pagine a 24 anni, io ne avevo 37… perché scontavo quel periodo di purgatorio che sono stati gli anni Novanta.

Parlaci della tua collaborazione con Internazionale.
Tutt’oggi continuo a fare le mie cartoline di graphic journalism, reportage a fumetti. Non tutti siamo come Joe Sacco, che con il quaderno degli appunti va a vivere di persona tutti gli eventi. Diverso è registrare ciò che ti accade intorno e metterlo a fumetti; in quel senso trovo che l’atteggiamento autobiografico paghi di più. Preferisco che sia chiaro che sono io ad aver visto certe cose, piuttosto che parlare in generale e fare il reportage. Si può parlare anche di cose piccole e avere lo stesso un valore universale.

Cosa ne pensi del fumetto digitale?
Credo che fumetto digitale e cartaceo possano tranquillamente convivere. Se penso al successo di Zerocalcare, non si può negare che l’aver messo in rete i propri fumetti lo ha solo aiutato. Mi pare che sia stato un grosso veicolo per lui e per altri. Se parliamo di fumetto fatto solo per il web, io ci spero; intanto perché se devi fare un fumetto solo per il web devi cambiare atteggiamento nei confronti del linguaggio che utilizzi, poi perché si abbattono tutta una serie di intermediazioni, come i distributori. Il problema però è riuscire a camparci col digitale.

(Sergio Brambilla • 01/11/2013)